È difficile essere un Dio

È difficile essere un Dio

HARD TO BE A GOD è molte cose. Prima di tutto è un romanzo di fantascienza dei fratelli Strugackij del 1964. Poi è un film del 1989 di produzione Franco-Sovietico-Tedesca e un videogioco russo del 2008. Di queste cose parlerò, forse, altrove, perché HARD TO BE A GOD è ancora una volta un film , questa volta del 2013, ma in realtà in lavorazione dal 2000. Ed è proprio di questo film, del regista russo Aleksei German , che voglio parlare. Sei anni di riprese e sette di post-produzione che si sono conclusi poco dopo la morte del regista, hanno portato alla realizzazione di un film incredibile, presentato in anteprima al Festival del Cinema di Roma nel 2013.

La storia

La storia è difficile da seguire per chi non la conosce già, il film è parlato in russo, i sottotitoli in inglese sono abbastanza buoni, non conosco il russo quindi non posso confrontarli con l’originale, ma ho l’impressione che in alcuni punti si perdano un po’.  Ma al di là del problema della lingua, la storia, nel film, è in realtà accennata, più che delineata chiaramente.

La forza del film è altrove, è nelle immagini in movimento, nel bianco e nero, nella costruzione (ricostruzione?) di una realtà caotica e miserevole. È un film di fantascienza, senza astronavi e senza tecnologie avanzate, che in realtà ci sono, ma solo nella premessa della storia non mostrata nel film. È  fantascienza senza progresso. Anzi questo è proprio il nucleo del film, al centro della storia vi è il progresso o meglio il mancato progresso di un mondo simile alla Terra.

In un futuro in cui i terrestri sono in grado di esplorare altri mondi, viene inviata una spedizione di osservatori su un pianeta abitato da esseri umani con una civiltà ferma allo stadio medioevale, incapace di evolvere verso un qualche tipo di rinascimento. Ogni tanto appaiono delle speranze di progresso, ma gli uomini di cultura, i poeti, gli artisti, gli artigiani più abili vengono massacrati dal potere dominante, simboleggiato dai ” Grigi”. Gli osservatori vivono immersi nella cultura locale, ma non possono interferire in alcun modo sullo sviluppo culturale o tecnologico del pianeta. Il protagonista è uno di essi, che assume l’identità di un nobile decaduto, Don Rumata, e che gradualmente perderà la sua capacità di rimanere distaccato e non farsi coinvolgere. Egli viene percepito come un essere, in qualche modo, superiore da parte della popolazione locale, che lo ritiene il discendente di un dio. Per un riassunto più preciso della trama, vi rimando alla voce riguardante il film su wikipedia.

Hard-to-be-a-God

Le immagini

Ma se la trama non è poi così importante, ciò che rende “Hard to be a God” Grande Cinema sono le immagini che scorrono sullo schermo.

Immagini in bianco e nero, con la macchina da presa quasi costantemente in movimento, a spalla o steadicam, per seguire i movimenti dei personaggi. Immagini disturbanti e allo stesso tempo meravigliose nella loro complessità, nella loro capacità di catturare lo sguardo, l’attenzione e perfino la mente dello spettatore/attore. Si finisce, infatti, per sentirsi talmente all’interno del film che in certi momenti è davvero difficile ricordarsi di essere semplicemente spettatori. La cinepresa è dentro la scena e con essa noi che attraverso di lei guardiamo. In certi momenti gli attori sembrano rivolgersi direttamente a noi, guardando in camera, in altri momenti si è così vicini al protagonista da sentirsi compagni del suo percorso, in modo così estremo da arrivare a delle ‘quasi soggettive’.

Le immagini sono straordinariamente coinvolgenti, non mi stancherò di ripeterlo. Se siete fra quelli che considerano Game Of Thrones un po’ troppo crudo state lontani da questo film, molto lontani. Ma se al contrario, il fango, la sporcizia, il sangue, le secrezioni corporali di qualunque genere non vi spaventano troppo, preparatevi ad immergervi in un mondo medioevale straordinariamente realistico, forse perfino troppo crudo. Si fatica a pensare che il medioevo terrestre possa essere stato così, forse in alcuni momenti e in alcuni luoghi. A differenza del medioevo edulcorato dei film fantasy o di chi sogna i bei vecchi tempi in cui si viveva in modo più vicino alla natura, il medioevo di Hard to be a God è duro, schifoso, puzzolente, fangoso, violento. Tutti sono pieni di muco, malattie, sporcizia, fango, merda, ferite, tutti si spingono, si spintonano in un sopruso continuo, dagli schiavi ai nobili, nessuno si salva. Violenti acquazzoni rendono il terreno ovunque fangoso e dappertutto ci sono insetti e topi. È una visione che richiama alla mente Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel con le loro scene piene di gente e di dettagli raccapriccianti. Ma mentre nei quadri dei pittori l’orrore era dato dai mostri che condividevano la scena con gli umani, qui l’orrore e il disgusto sono tutti pienamente umani. Nessun demone tentatore trascina gli uomini nel fango, è solo la loro incapacità di sognare un futuro che li mantiene ancorati a un eterno, lurido, medioevo.

Guardare Hard to be a God mi ha fatto pensare a Mad Max. Può sembrare un paradosso, ma se Mad Max Fury Road è considerato un film straordinario per la potenza delle immagini, lo stesso si può dire di Hard to be a God.

Sono entrambi esempi di Grande Cinema in cui la storia emerge dalle immagini, che la fanno da padrone, affascinando e incantando lo spettatore.

La ricchezza dei dettagli che affollano tutte le scene del film di German, è impressionante, anche nei campi lunghi. C’è sempre qualcosa in movimento, persone, animali, oggetti. Vi sono cose che spuntano dal basso, che penzolano dall’alto, spesso davanti alla cinepresa talmente immersa nella scena, che viene naturale scostarle con la mano.

Vi è forse un’unica consolazione in questa specie di girone infernale in cui tutti sputano, pisciano, si scaccolano, ed è il modo in cui le persone si toccano, senza paura. In un mondo asettico come il nostro in cui si teme di dare la mano a qualcuno, finisce per diventare perfino attraente la familiarità con cui i personaggi si toccano, si appoggiano uno all’altro, si sorreggono, si passano il cibo.

Dopo tre ore di film (già, dura proprio tre ore), per un bel po’ non riuscirete a uscirne, forse non né uscirete mai più.

Ogni volta che mi toccavo il volto, che mangiavo, che prendevo un oggetto mi tornava alla mente Don Rumata e il mondo di Arkanar.



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